“Happy Ending”, è questa la frase con cui Tigran e Arsen, poco prima di dirsi addio, hanno voluto salutare definitivamente il mondo. O meglio, quel mondo che non li ha mai accettati e che non avrà più la possibilità di farlo. I due ragazzi, infatti, originari dell’Armenia, Paese tristemente noto per la sua dura repressione nei confronti della comunità LGBT+, erano fidanzati da tempo ed è stata questa la “colpa”, sebbene tale non debba mai essere definita, che li ha condotti al suicidio.
Un amore, il loro, vissuto nella paura e nel disprezzo di chi li circondava dal momento che proprio per questo erano stati scherniti e allontanati da chiunque, persino dalle loro stesse famiglie. Ed è così che alla fine, pur di trovare un po’ di pace e serenità, hanno deciso di compiere un gesto estremo, l’ultimo della loro vita.
Il suicidio di Trigran e Arsen in Armenia: un monito, non un esempio!
Quando in una realtà che si reputa civile due innamorati, si tratti di due uomini, due donne o di due persone di sesso differente, scelgono di morire anziché di godere della pienezza che la vita ha da offrire, allora c’è qualcosa di profondamente sbagliato in quella realtà. Al di là di qualsiasi tipo di ideologia o corrente politica, viviamo in un’epoca in cui ciascuno di noi è sempre pronto a battersi il petto per le più disparate cause o a coronarsi di facili slogan acchiappa consensi, ma mai a darsi realmente da fare se se ne presenta l’occasione.
È spaventoso che episodi del genere si verifichino in pieno 2022, specialmente se questi, in determinati contesti, vengono persino incoraggiati “dall’alto”. Ma ancor di più lo è quando certi fatti non vengono contrastati, bensì assecondati e applauditi, “dal basso”. Sono migliaia infatti i commenti negativi, tra cui addirittura quelli di alcune donne e madri, allo scatto pubblicato dai due giovani alcuni istanti prima di saltare giù da quel ponte, in cui si esulta per la loro scomparsa e si sottolinea come quanto accaduto debba essere un esempio per tutti coloro che rischiano di commettere l’errore di Tigran e Arsen. In altre parole, quello di amarsi.
Ciò che è successo in Armenia, però, non è assolutamente un esempio, ma un monito su cui dover riflettere e in virtù del quale adoperarsi affinché simili tragedie non si ripetano. Con quale spirito, mi chiedo, madri, figlie, sorelle e nonne di ogni angolo del pianeta abbiano gioito di fronte alla tragedia, dimenticandosi per un attimo di essere a loro volta madri, figlie, sorelle e nonne di qualcuno? O peggio, di qualcuno che potrebbe facilmente trovarsi al porto di Tigran o di Arsen?
Non è la fertilità a fare di qualcuno “una madre”
E pensare che Madre Armenia è considerata la personificazione nazionale di questa piccola fetta d’Asia. Un emblema il cui scopo sarebbe quello di simboleggiare l’importante ruolo e valore delle figure femminili più anziane nelle famiglie armene. Ma dov’erano queste quando Tigran e Arsen non avevano più nessuno su cui poter contare? Oppure, a che cosa pensavano quando li hanno allontanati dalle loro case? E come avranno reagito alla notizia della loro morte? Probabilmente avranno esultato. O chissà, magari si saranno profondamente pentite di aver anteposto delle mere convinzioni alla felicità del proprio figlio.
Questo non lo sapremo mai. Quel che è certo, però, è che vivere la vita nel modo che si ritiene più opportuno, restando liberamente fedeli a se stessi senza nuocere alla libertà altrui, sembra quasi diventato un reato. Un reato, nel caso di Tigran e Arsen, ma anche di altri milioni di ragazzi come loro, pagato a caro prezzo.
Spesso e volentieri, ci si oppone a qualcosa che spaventa e, in quanto tale, lo si considera “diverso”. Ma ciò avviene solamente perché “quel qualcosa” non lo si conosce e, dunque, non lo si vive! Da quando l’amore si è trasformato in una colpa da dover espiare?! Questa è la domanda su cui in tanti, forse troppi, in primis alcuni “illustri”, si fa per dire, esponenti del neo-insediato Governo Meloni, farebbero bene a riflettere.
Comunque, in qualunque posto si trovino ora, forse, Tigran e Arsen avranno finalmente trovato il loro “Lieto Fine”. Qui, purtroppo, di strada ce n’è ancora molta da fare per raggiungerlo.
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