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Basteiro-Bertolí: il talento poliedrico di un’amazzone mediterranea | Cineincanto

In esclusiva per Cineincanto, il cinema e la musica di Eva Basteiro-Bertolí

Basteiro-Bertolí

Eva Basteiro-Bertolí, in arte Basteiro-Bertolí, è un’esplosione di energia cosmica e tellurica. Viene dalla terra e viene dalle stelle; da Barcellona a Roma, è cantautrice, musicista, attrice e direttrice del “48 Hour Film Project” italiano. La determinazione e l’intensità con cui si muove nell’arte sono d’ispirazione per chi ascolta e guarda. Con inesauribile entusiasmo, si racconta perché ama raccontare storie, con quel mistero avvolgente che ricorda i suoi amati quadri fiamminghi.

Basteiro-Bertolí: il talento poliedrico di un'amazzone mediterranea | Cineincanto
Eva Basteiro-Bertolí

Eva Basteiro-Bertolí – Cineincanto

Partiamo dalla musica. Tu canti in inglese e suoni la chitarra, sei nata in Spagna, parli quattro lingue e vivi e lavori in Italia. Alla luce di questa commistione di esperienze e culture, come definiresti il tuo genere musicale?

Il mio genere è senza dubbio il Folk. Molti non sanno precisamente cos’è. Quello che intendo io è quello degli anni ’70 che non ha nulla a che vedere con il folklore di una determinata cultura o nazione. Il mio è contaminato dall’Elettronica, dal Rock, dal Progressive e, nei testi, dal cantautorato. Cerco sempre una forma di narrazione. Per le cantanti donne, il Folk attuale è caratterizzato da una certa tendenza alla dolcezza della voce. Il mio, invece, non avendo una voce femminile, è più simile a quello degli anni ’70 con “sporcature” attuali.

Il tuo ultimo album, intitolato “Boh”, in uscita prossimamente, ha una copertina d’effetto, ancora inedita, che mi ha colpito molto e che ti ritrae in un mix originale e affascinante tra il Barocco e il Dark. Mi racconti, partendo da questa estetica, qual è il concept del disco e di quali atmosfere si nutre?

Il disco è, in effetti, un concept album. Attraverso l’input di alcuni film, alcuni libri, alcuni quadri che mi piacciono particolarmente, racconto una storia di crescita e di disfatta di una donna all’interno di una coppia e poi il suo percorso nella solitudine. Anche se non è un concept album di vecchia scuola, parto da elementi molto concreti. Per esempio, c’è un brano ispirato al mio amore per la “Dama con l’ermellino” di Leonardo da Vinci. Quel testo è stato scritto con la collaborazione di Ian Anderson. Ho immaginato la vita dietro la donna ritratta nel quadro. Ci sono, poi, altri brani ispirati a un viaggio che ho fatto in Bolivia, a Il Ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde e ad alcuni passaggi degli scritti di Sant’Agostino. Altri brani, invece, sono ispirati più da sentimenti ed emozioni. La copertina nasce dal mio amore per la pittura, in particolare da quella fiamminga, da Hieronymus Bosch, ma anche da El Greco. Per me è stata d’ispirazione l’atmosfera eterea dei fiamminghi, con quel tocco inquietante e il distacco del soggetto ritratto che comunicano un certo mistero. Ho immaginato e creato la copertina come una pittura fiamminga del 2022.

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Essere musicisti e attori è un privilegio non da tutti. Quanto e come una cosa influisce
nell’altra, si alimentano mutuamente?

Possono alimentarsi vicendevolmente, ma non è una cosa scontata e io non saprei scegliere tra le due cose. Mi succede di vivere momenti in cui sono totalmente immersa nella musica e altri in cui sento di voler interpretare un personaggio. Si nutrono mutuamente nella gestione della voce, per esempio, ma in questo senso la mia voce è molto selvaggia. A parte la tecnica che ho appreso nella musica, come nella recitazione, procedo molto con l’istinto e questo è dettato dal fatto che ho la fortuna di non avere una voce molto pulita. La mia voce è bassa e l’alterazione che tutti, inevitabilmente, possono avere quotidianamente per condizioni esterne, per me, non rappresenta un problema perché può assumere colori diversi che non tolgono, ma aggiungono sfumature importanti.

Il “48 Hour Film Project” è una manifestazione internazionale che si svolge in 140 città e consiste nella realizzazione di un cortometraggio di 7 minuti in 48 ore. É un festival originale e rinomato e tu, ormai da anni, dirigi l’edizione italiana. Che significato ha, secondo te, questa esperienza per i molti giovani che vi partecipano?

Penso che non sia solo un’esperienza folle, ma un’opportunità per mettersi alla prova e soprattutto per imparare a fare una cosa fondamentale per il cinema, quella di lavorare in gruppo. Il cinema è, forse, l’unica arte che non si può fare da soli, è un’arte collettiva. Saper lavorare in gruppo, anche sotto pressione, è fondamentale. È un modo per creare sinergie con altre squadre, incontrare nuove persone, futuri professionisti e imparare a gestire il tempo. Per i partecipanti, poi, data la qualità dei giurati, è un’opportunità di confronto e visibilità rispetto a professionisti di alto livello. Se poi si entra in finale, questa manifestazione rappresenta la possibilità di essere tra i 10 migliori del mondo e andare al Festival di Cannes. Dirigo questo festival nella sua edizione italiana con Tania Innamorati e Ester Stigliano.

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I giurati che si sono susseguiti nelle varie edizioni del festival sono sempre personaggi autorevoli e molto noti, hai un’esperienza particolarmente significativa da raccontarmi?

I più i grandi sono stati sempre quelli più alla mano, puntualissimi e super disponibili. All’estero, in particolare, il cinema è un lavoro, non un privilegio per cui sentirsi superiori e mi sono resa conto che nonostante la fama e i riconoscimenti, c’è sempre molta umiltà e passione. É un approccio ammirevole. A volte, qui in Italia, alcuni perdono di vista questo approccio. Si dà più importanza a tutto ciò che circonda il mondo del cinema e non al fare cinema. Una di quelle personalità che ricordo in particolare è Mark Mangini, montatore del suono, premio Oscar per il film “Mad Max: Fury Road”. Doveva venire a Roma per la premiazione, ma poi ci fu un problema e non poté più esserci. Ci mandò un video indimenticabile. La registrazione mostrava lui, con lo smoking, davanti alla collina di Hollywood. Aveva in mano una busta dorata con dentro il nome della persona scelta come miglior fonico. Decise autonomamente di farsi un self tape per annunciare il vincitore in questo modo così curato e simpatico. Essere nei panni del destinatario del premio, annunciato da lui così, deve essere stato un onore e un’esperienza memorabile.

Tu sei laureata in Archeologia cristiana e Storia della chiesa. A mio parere è una formazione peculiare e molto affascinante per un’artista come te, tra musica e cinema. C’è un legame tra le due cose? Questo tipo di formazione ha influito in qualche misura nella tua carriera di attrice e musicista?

Secondo me non c’è nessun tipo di legame. Per di più io venivo da studi scientifici, da Ingegneria chimica nucleare. Però, più in generale, la cultura e la conoscenza rendono liberi e questo sì che influisce. Più cose cerchi di conoscere e più sviluppi lo spirito critico, di conseguenza hai più capacità di osservare il mondo e di scegliere. É come l’educazione e le buone maniere. Se si ha una buona educazione, si sa come comportarsi e questo apre più opportunità e si hanno meno limiti.

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Tu hai rappresentato e rappresenti un “trait d’union” in questioni culturali rilevanti tra Spagna e Italia. Nel 2018, per esempio, hai organizzato e presentato la manifestazione per l’onorificenza a Raffaella Carrà da parte del Governo spagnolo. Sei catalana, hai girato il mondo, ma hai scelto l’Italia come tua seconda casa. Cosa ti riporta sempre qui?

Al di là della bellezza oggettiva, della vicinanza culturale che caratterizza i paesi mediterranei, c’è un qualcosa che non so spiegare. Un qualcosa di magico e misterioso che mi riporta sempre qui a Roma. Una specie di droga. Poi, quando sono qui, spesso, non ne posso più e voglio andarmene, ma di nuovo un qualcosa di arcaico e antico mi riporta in Italia. Qualche energia, qualche filo invisibile mi trascina sempre in questa terra.

Ripropongo spesso una domanda agli attori: mi piacerebbe che tu mi disegnassi, idealmente, i tratti del personaggio che in questo momento della tua vita, professionale e umana, vorresti interpretare.

Amo il cinema muto, l’Espressionismo tedesco, il cinema scandinavo e, proprio in questi giorni, facendo ricerche per il mio prossimo album, ho scoperto Alice Guy-Blaché, la prima donna regista della storia. Si trasferì negli Stati Uniti, fondò una casa di produzione, fece centinaia di film, ma è stata totalmente dimenticata e snobbata dalla storia ufficiale del cinema. Scoprendo questo personaggio che non conoscevo, adesso, mi sento di dirti che mi piacerebbe interpretare questa tipologia di donna. Donne che nel loro tempo sono state pioniere e coraggiose, senza sensazionalismo, vittimismo o atteggiamento martire, ma con naturalezza. Così come la naturalezza di Alice Guy-Blaché che il suo ambiente, fatto principalmente di uomini, anch’essi pionieri, percepiva già in quel tempo.

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Basteiro-Bertolí è il tuo nome d’arte come musicista. Che differenza simbolica c’è, se c’è, tra queste due identità o entità, tra Eva e Basteiro-Bertolí?

Non amo i nomi propri nei progetti musicali, ma a parte questo, la scelta di usare BasteiroBertolí mette una sana distanza. È come raccontare storie in terza persona. Forse questa scelta è legata fortemente al fatto che a me piace la narrazione. Mi piacciono tutti quegli artisti che, anche nella scelta delle parole dei loro brani, non sono mai facili, colloquiali, scontati, sono, invece, ricercati, non per essere pedanti o pomposi, ma per usare al meglio la risorsa del linguaggio come una ricchezza. Usare sempre le stesse 1500 parole è noioso. Per questo amo molto Ian Anderson, Serge Gainsbourg e Franco Battiato. Quest’ultimo, in particolare, nei suoi testi sembrava stesse dipingendo, riusciva a trasportarti lì, in quel mondo, in quel tempo, con quegli odori. Non mi metto a livello di questi tre “mostri”, ma mi piace l’atto di narrare in questo modo. Il musicista per me è un “Medium”. In un mondo in cui la vita privata e quotidiana viene sempre più mostrata come oggetto mediatico di interesse, io ho nostalgia del mistero, proprio come quella distanza tipica dei pittori fiamminghi.

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Non perderti gli ultimi articoli della rubrica mensile “Cinecincanto”, a cura del regista Carlo Fenizi in esclusiva per VanityClass.

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Melanie Francesca

Fiori nell'attico

Fiori nell’attico (1987) | Cinema Sommerso