in ,

Carlo Sciaccaluga: “il teatro deve tornare a fare il teatro” (Pt.1)

Il celebre attore e regista teatrale fra successi, ritorno in scena, analisi del ruolo del teatrante e i (tanti) progetti futuri

Il regista e attore Carlo Sciaccaluga

Carlo Sciaccaluga: i successi di un giovane uomo di teatro nel mondo

Carlo Sciaccaluga è un affermato attore e regista teatrale genovese. 

È reduce del recente successo della sua regia de “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde portata in scena, nuovamente, con la Compagnia Il Demiurgo.

Una storia celebre, «una farsa che avviene in un mondo di farsa, dove niente ha senso», «capace di rimescolare e discutere ogni piano della realtà»

«Una delle più grandi invenzioni comiche della storia del teatro», come spiega lo stesso Sciaccaluga nella presentazione video della pièce. Ironica, estremamente assurda, ed estremamente elegante. 

In una miscellanea musicale in apparente contrasto con i costumi, l’opera riesce, ancora una volta, a rappresentare e presentarsi nella sua essenza. Sarcastica, dissacrante, giocata sull’equivoco che nasce da una parola.

O, in questo caso, da un nome (Earnest, che allude all’Onesto, che di tale il personaggio non ha nulla).

Non è la prima volta che la regia di Sciaccaluga si sposta al Castello Lancellotti, nell’Avellinese.

«Orientarci meglio per capire qualcosa su più di noi stessi» 

Del giovane ligure sarà anche la direzione dello spettacolo, inedito in ltalia, “I racconti della peste” di Mario Vargas Llosa per la coproduzione del Teatro Stabile di Catania e Nazionale di Genova. (22 novembre/4 dicembre 2022, Catania). 

La scelta ricade in modo non casuale. 

Sciaccaluga, attento sostenitore della campagna vaccinale contro il Covid, rispettoso delle regole e delle categorie più fragili, opta per un’introspettiva post(?) pandemica sul potenziale (ruolo) del teatro.

L’opera omonima del Premio Nobel peruviano affronta tematiche come conflitto fra realtà, letteratura quale specchio, evasione, dove la finzione più realistica della realtà stessa

“I racconti della peste”: commistione di tradizione e innovazione letteraria 

Una trama interessante, nonché attualissima, che rivisita in forma teatrale le lunghe giornate della peste del Decamerone (definito di recente di impostazione teatrabile), dove per i cinque personaggi protagonisti sceglie come Aminta (elogio al Tasso), il conte Ugolino (chiaro riferimento dantesco), Panfilo e Filomena della celebre opera d’origine, aggiungendovi il Boccaccio stesso.

I cinque si reinventano, sempre diversi, impersonando vorticosamente circa una trentina di personaggi. 

L’uscita di scena finale dei cinque (nella trama del libro) e il ritorno a Firenze, e alla vita, rievoca il Decamerone e le ambientazioni medievali ricordando che «la vita rinasce dappertutto: la gente pulisce le strade, sotterra i suoi morti, spazza i cortili, disinfetta le pareti, ci sono messe in tutte le chiese e in tutti i quartieri si organizzano processioni di ringraziamento»

Un confronto esclusivo con Sciaccaluga avvenuto nel 2021 che riproponiamo: dalla paura per la pandemia alla Russia, il ruolo del teatro 

Dopo più di due lunghissimi anni di pandemia, è sopraggiunto, a febbraio 2022, il conflitto fra Ucraina e Russia.

Pertanto, è importante capire come il teatro, mimesi della realtà, divenga posto sicuro dove inventare. O, anche, inventarsi un rifugio per eludere un mondo esterno troppo pesante.

Indimenticabili, drammatiche -fra le altre- le immagini della distruzione del Teatro di Mariupol.

L’abbattimento di un luogo sacrale e sociale come il teatro è, ricordiamolo, un attentato alla civiltà e alla storia dell’umanità che vi è passata prima, nel frattempo e a chi verrà, provato, mutilato idealmente di quel patrimonio storico che si fa vivo di volta in volta, spettacolo dopo spettacolo.

Attraverso i percorsi di drammaturgia e letteratura salvifica, i loro riscontri e incontri con il passato, possiamo cercare di orientarci meglio e capire qualcosa su più di noi stessi.

A seguito di ciò, nell’attesa dei futuri progetti dell’artista Sciaccaluga, decidiamo di fare un passo indietro nella storia recente ripubblicando un lungo approfondimento per delineare i cambiamenti, tanto recenti quanto repentini nell’ambito della rifioritura del teatro di oggi.

Nonostante tutto. 

La lunga e preziosa serie di domande e risposte con contesti dedicati è stata suddivisa in due distinte parti: questa, e una pubblicata a breve. 

A tu per tu con Carlo Sciaccaluga 

Per riprendere la lunga e personalissima intervista che Carlo mi ha concesso in esclusiva per Vanityclass torniamo perciò all’agosto 2021, a ridosso dei primi passi delle prime riaperture dei teatri.

Dopo tanti mesi di indecisione e appelli a favore di un settore, quello dello spettacolo e delle arti, tanto discusso e poco rassicurato, emergevano le prime concrete decisioni governative.  

Oggi, a quasi un anno di distanza, con le nuove ordinanze ministeriali che mettono in stand-by il Green Pass, si legge che, dal primo maggio scorso, fino al 15 giugno le mascherine (rigorosamente FFP2) nei luoghi di intrattenimento e cultura (al chiuso) come musei, cinema e teatro resteranno in vigore. 

Cambiare, mantenere e rimodulare del teatro

Ripercorriamo e ripubblichiamo le parole del drammaturgo per comprendere meglio cosa valga la pena cambiare, mantenere e rimodulare del teatro. Con la consapevolezza che esso deve essere preservato come testimonianza della, per la e con la comunità.

Agosto 2021: Ciao Carlo, che piacere!

Carlo Sciaccaluga nasce il 4 Novembre 1987 a Genova, città che ha per lui il valore sacro di casa, rifugio, ricordo e famiglia. Lì, abitano il fratello Giovanni e, benché studentessa in Cattolica a Milano, la più giovane dei tre, Caterina. 

Quanto riporterò ora è il racconto di una ilare, nonché quasi rocambolesca serie di connessioni e riconnessioni.

Di linea e di linee della vita

E di uno di quei preziosi momenti che “capitano fra persone che ti capitano surrealmente”, di quelli in cui riusciamo a trovare il tempo di una piacevole conversazione di lavoro e quello di una chiacchierata fra vecchi amici. 

Era un’atipica e piovigginosa giornata di mezza estate.  

VF: “Carlo, come stai, innanzitutto?”

CS: “Bene, e se ti può consolare anche qui non c’è un gran bel tempo. Sono in campagna, a Lauro (AV), dove c’è il meraviglioso Castello Lancellotti di Lauro (AV). Stiamo ultimando la messa a punto del “Tartufo” di Molière” prima del debutto.Io ne seguirò la regia con la Compagnia teatrale “Il Demiurgo”

Si percepisce l’entusiasmo della collaborazione (n.d.r.)

Mi racconta che la Compagnia è una realtà grande in Campania, specializzata in spettacoli all’aperto, in luoghi non teatrali

CS: “Riportare le persone fuori dai luoghi canonici del teatro è una cosa che sta funzionando tanto e che loro fanno da anni qui sul territorio.

Però, effettivamente, per via del periodo da cui veniamo, adesso c’è molta curiosità per il teatro all’aperto. Come c’è di vita all’aperto, del resto, più in generale. 

Infatti io ho fatto a Genova quello spettacolo che andava in quella direzione lì, ecco.”

(Come se fosse uno spettacolino da poco, la fa semplice -lui- ma, leggendo, emergerà la sua modestia n.d.r.)

VF: “Finalmente, aggiungo! È anche un bel modo per respirare aria nuova, in tutti i sensi. 

Questa scelta aiuta, inoltre, le persone a vivere il teatro in modalità diversa, molto meno “snob”, dando l’idea di maggiore vicinanza con lo spettatore. Confermi?”

CS: “Si… tu, teatro, ti apri alla città e simbolicamente la gente lo percepisce in maniera diversa.”

VF: “Parlando di Tartufo: è una versione originale, o riadattata e più contemporanea?”

CS: “Il testo è assolutamente fedele, con bellissima traduzione in rima di Valerio Magrelli, ma è ambientato e recitato come se fosse una commedia all’italiana dei primi Anni ’60.

Ispirata un po’ alla Dino Risi, con musiche composte appositamente da Andrea Nicolini. In più, si spazia fino a Jimmy Fontana e Sergio Endrigo

VF: “Viaggia un po’ sull’ondata nostalgica del ricordo di un’epoca più che altro connaturata e vissuta attraverso le parole e le canzoni delle generazioni che hanno contraddistinto il panorama musicale italiano delle nostre generazioni a cavallo di anni ‘80 e 2000. Lo si nota persino in alcune serie, ad esempio, su Netflix in cui si scelgono brani di questa tipologia, come nel successo italiano molto teen Summertime

CS: “Non me ne sono reso conto, vedi? Sono alla moda senza saperlo!”

VF: “Ebbene, ti illumino io! Oggi poi si parla tanto di tendenza” (risata di entrambi)

Carlo il quasi anti-social

CS: “Si, ogni tanto mi mandano video di TikTok, che non ho: alcuni, ammetto fanno ridere, ma sto pensando di togliere tutto, a livello di social.

Facebook l’ho già eliminato, ad esempio. Non so ancora per quanto riguarda Instagram…”

VF: “Io penso dipenda sempre dall’uso che si fa del mezzo. Poi, lo sai, il mio profilo è privato su Instagram e ho poche persone che mi seguono perché normalmente non accetto chi non conosco. Facebook lo uso solo per condividere qualche appello, articoli e commenti fra amici di quelli anche fuori da quel mondo. Ma, per contro, uso il profilo IG di Afrodite, che è spesso la narratrice della rubrica “Noi Animali” di VanityClass.

Inoltre, collaborando e scrivendo anche per Mai Più Solo avere una visuale più ampia sulle tematiche più difficili come bullismo e cyberbullismo di cui essa si occupa principalmente, i media mi aiutano a capire e carpire evoluzioni e involuzioni in qualche modo sociologiche

Purtroppo, anche secondo il suo fondatore, Vincenzo De Feo, mantenere un minimo di interazione è ormai necessario. Pur con quel distacco sul troppo personale, si può quantomeno osservare ciò che ci circonda e accade, benché vorticosamente”

Sciaccaluga e il dilemma per chi fa spettacolo dal vivo: social media o non social media?

CS: “No, ma infatti non si può.

E qui nasce un po’ un dilemma per chi fa spettacolo dal vivo: senza asserire siano nemici i social network come tali, anzi, possono essere alleati.

È pur vero che, se poi ci si pone il problema che il dovresti (come artista di spettacolo) sempre essere come sacerdote, un po’ come parte dei Cavaliere Jedi della carne, di ciò che accade in diretta, cioè quella relazione fisica fra un corpo e un altro, si percepisce immediatamente il contrasto con questi mezzi.

Purtroppo ci portano a vivere in un mondo che, al contrario, ci induce a star da soli.

Questo discorso, pur banale, da teatrante, ti spinge a chiederti se non rischi di divenire complice di qualcosa che va contro la mia idea di mondo e ruolo nel mondo.

Tuttavia, non ho una risposta a questa domanda che faccio a me stesso, è, al contrario, una domanda che rimane sempre aperta perché potrebbe essere giusto invece cercare come si sta facendo, cercando cioè un compromesso, che però deve sempre essere critico.”

Il virtuale come strumento di mediazione?

VF: “Io aggiungo che, a mio parere, è anche molto intelligente porsi questa domanda: fino a che punto quest’apertura, in quanto è pur vero che abbiamo avuto l’opportunità attraverso il mezzo per così dire, virtuale.

Di contro, credo occorra anche definire un modo di vedere questo termine così ormai comune.

Ad esempio, la mia idea in merito è un po’ negativa, in quanto mi rimanda immediatamente ad un’idea di finto, nella sua accezione più brutta. Invece, il concetto di mediazione permessa propriamente dal mezzo, che, in un momento in cui magari non ci si vede, ma ci si può sentire, diventa uno strumento.

Allo stesso modo, così dovrebbe essere anche con i social media, nonostante la linea sottile fra uso e abuso. Concordo con te sull’esigenza di un compromesso critico e analitico sulla base del vissuto personale di ognuno.”

Il regista: mi auspico un pubblico più consapevole

CS: “Certo, poi in particolare la crisi di questi due anni ha accelerato questa riflessione, nel senso che, essendo sprofondati, tutti, ulteriormente nel mondo virtuale, poi si è vista la voglia di uscire dopo.

Questo, da una parte regala grande speranza perché, benché io non creda aumenterà la quantità di pubblico, penso che potrebbe aumentare la qualità del teatro e del suo pubblico

Per quanto, forse, il teatro rimarrà un prodotto di nicchia, c’è una maggior coscienza e la consapevolezza del pubblico e quindi, dello spettatore medio che aumenta.

O almeno così si spera, perché magari molto presto ci dimenticheremo e ci lasceremo tutto alle spalle”

VF: “Spero davvero di no, anche perché, grazie ai tanti eventi negli spazi più disparati, ha in qualche modo permesso che alcune persone capitassero quasi a teatro, non del tutto consapevoli di ciò che avrebbero visto. Fa quasi sorridere, ma dona forse maggiore percezione e curiosità”

CS: “Si, e va bene così! Anzi, è quasi meglio che ci sia un pubblico così, disomogeneo e meno formato, perché altrimenti, se c’è solo un pubblico preparato, resta solo una parte di esso. 

Il teatro deve parlare, sempre

Il teatro deve parlare e avere un valore sempre, a prescindere dalla preparazione di chi vi partecipa; e non può, per questo fattore connaturato, essere solo per laureati. Deve tornare ad essere per chiunque abbia voglia di esserci, essendo parte a sua volta del teatro.”

Sciaccaluga dirige Nappi nel Tartufo di Molière: “Una commedia divertentissima, ma anche intelligente.” 

VF: “Tornando al Tartufo, raccontami un po’, visto che stai andando al Castello per il sopralluogo!”

CS: “Dunque, il Tartufo andrà poi in tournée… poi nell’estate 2022 tornerà in anfiteatro ad Ostia Antica, poi, sempre a Napoli, in luoghi rigorosamente NON teatrali.

I ragazzi del Demiurgo sono specializzati in spettacoli vividi e inusuali, usando spazi e luoghi non originariamente preposti al teatro, e sempre in maniera diversa.

Hanno fatto spettacoli in ogni dove: grotte, chiese, castelli, borghi.

Il castello è molto bello. Di origine medievale, è stato rifatto nell’Ottocento, ma è tuttora di proprietà privata dei Principi Lancellotti”.

Tartuffe

Storicamente, la scandalosa prima del “Tartuffe (ou l’Imposteur”), fu rappresentata per la prima volta a Versailles nel 1664, commedia tragica di Molière, pseudonimo del drammaturgofrancese Jean-Baptiste Poquelin.

Nata come farsa all’italiana con la vittoria finale (in tre atti) del Tartuffe, viene rivista (gli atti divengono cinque) per l’implicita volontà di Luigi XIV, che fece correggere l’opera, col noto finale della sconfitta del protagonista.

È, senza alcun dubbio, una delle massime espressioni di commedia di sempre, non a caso risulta sempre attuale, poiché rappresenta un feroce attacco alla natura ipocrita e alla falsa morale della nobiltà dell’epoca che si rinnova, fra perbenismi vari, ancora nella nostra società.

Se Tartufo rappresenta, seppur in maniera esagerata, ipocrisia sotto mentite spoglie di devozione religiosa e amicizia, è pur vero che, come scrisse l’autore al sovrano in una lettera di presentazione, “il compito della commedia era quello di correggere gli uomini divertendoli, presentandone vizi e virtù”

In effetti, con grande sagacia, l’opera è sì, una forte satira contro la stupidità, ma anche un’insperata fede e amore verso l’essere umano. 

Sciaccaluga ha così commentato: «Molière riesce nella grandiosa impresa di rendere non solo comica, ma anche interessante la stupidità. Lo spettatore è sgomento di fronte all’amore assurdo di Orgone per Tartufo, perché è evidente fin dall’inizio che siamo di fronte a un truffatore, astuta bestia primordiale che pensa solo a cibo, denaro e sesso. Come mai Orgone non lo vede? Travolto dal senso di colpa, non accetta il mondo che cambia intorno a lui; fondamentalmente, non lo vede perché ha bisogno di credere, di amare. E lo fa male, ovviamente.»

Lo stesso Franco Nappi, responsabile, nonché Direttore Artistico della Compagnia, ha descritto con grande entusiasmo l’evento dicendo: 

«Per il Demiurgo si tratta di un esordio importante: la prima nazionale di un progetto estremamente ambizioso, affidata alla regia di Carlo Sciaccaluga, lo stesso cui il Teatro di Genova ha affidato la sua ripartenza.

Ovviamente è un’operazione dal punto di vista artistico e finanziario importantissima»

Proseguirà poi dicendo che la sua è «una voglia di alzare l’asticella, nonostante il Covid, nonostante tutto. Perché «se la pandemia ha dimostrato che siamo inutili, come categoria, alla sopravvivenza dell’essere umano, ha anche dimostrato che siamo tra quelle attività che distinguono la mera sopravvivenza dalla vita: abbiamo un compito importante, e abbiamo imparato che avere un pubblico non è scontato. È un dono. Sempre. Un dono di cui essere all’altezza

La scelta del “Tartufo” esprime tutta la voglia di denunciare l’ipocrisia di una società ai confini della surrealtà, e in parallelo la voglia di rientrare nel suo substrato di reale ancora presente.

Quella presenza fisica di attore e spettatore che rende il teatro un unicum irrinunciabile per l’essere umano

Sciaccaluga e la collaborazione con Davide Livermore

VF: “Dopo tutti questi traguardi pensi di concederti un po’ di riposo o sei già alle prese con un nuovo progetto?”

CS: “Prossimamente in realtà io finirò qui e partirò per una grande avventura a dire il vero. Professionale, e un po’ particolare: mi ha chiamato il Direttore del Teatro Nazionale di Genova, Davide Livermore,uno dei più grandi registi di opera lirica al mondo, oltre che, naturalmente, di teatro di prosa, per andare con lui.

Lui sarà il regista e io il regista collaboratore, in Kazakistan.

Lì, lui ha già lavorato con l’Opera di Astana; noi tuttavia saremo nel teatro del Turkistan, una città a sud kazaka. Non sarà un’opera lirica, ma di teatro di prosa. Un pezzo innovativo… nuovo.”  

“Бөртэ” 

Una trama, quella su cui sta lavorando al momento il regista, di cui si legge dalla pagina Instagram  (tradotta) dedicata del teatro, che gira intorno alla figura di Burte (Бөртэ), moglie di Temüjin, ovvero colui che divenne Gengis Khān.

Lo spettacolo, ambientato e caratterizzato da costumi e ambientazioni unici, ispirati allo splendore dell’impero mongolo, inizia con una performance di Isabekov.

Le musiche sono composte appositamente. Le scenografie, di grande impatto, sono pensate per creare uno spettacolo immersivo carico di attrattiva.

L’imponente progetto inaugurerà il nuovo teatro drammatico musicale di Turkestan. Di cui, sono fiduciosa, mi racconterà al suo rientro (nel frattempo seguo regolarmente tramite le storie e quelle rare foto che scatta o invia. -N.d.r-). 

Tornando all’intervista:

VF: “Indubbiamente una bella prova!”

“Io Contagio” 

CS: “Ah, si. Sono curiosissimo, entusiasta. Inoltre ho un rapporto molto bello con Davide, ci siamo conosciuti solo dall’anno scorso, ma gli ho fatto da aiuto regista per “Edipo: Io Contagio”.

Si trattava di una mostra particolare dove c’erano degli attori che recitavano chiusi dentro le teche. Livermore l’ha ideata e pensata in quel momento in cui erano stati chiusi i teatri, ma non i musei. Pertanto l’idea era stata, appunto, quella di mettere gli attori come se fossero dei reperti. Esposti e recitanti in quegli spazi limitati, e la mostra era un percorso su Edipo.”

VF: “Un lavoro molto fuori dal comune!”

CS: “Si, decisamente molto particolare! Inoltre questo nuovo incontro con lui mi ha dato anche la grande possibilità di fare la “Congiura del Fiesco” di cui sono molto grato.” 

(Nella pausa intercorsa fra le telefonate, è doveroso fare cenno al grandioso spettacolo tenutosi a Genova. -N.d.r.

La regia del Fiesco a Genova per il Teatro Nazionale

Quando ci siamo accordati per sentirci, Carlo era reduce del trionfale ritorno in scena a Genova con lo spettacolo di Schiller “La congiura del Fiesco”, di cui ha curato sia il testo che la regia. Nondimeno, Sciaccaluga è anche un ottimo traduttore. 

Del successo della “Congiura”, Sciaccaluga non ha detto molto, se non che era andata abbastanza bene”, senza autoreferenza né arie, benché basti semplicemente cercare su Google per comprendere la portata dello spettacolo.

Che, al contrario di regista e assistente alla regia, possiede una forma di autoreferenzialità, quale grande elogio del teatro principale (il Nazionale o ex-Stabile) alla sua città (Genova), e della città al suo teatro.

La messa in scena, voluta e affidata a Sciaccaluga dal Nazionale del capoluogo ligure, è stata grandiosamente realizzata al di fuori dell’edificio, precisamente in Piazza San Lorenzo.

Il Fiesco di Schiller

L’occasione era la rievocazione della congiura da parte di alcuni nemici, guidati da Gian Luigi Fieschi, ai danni del Doge Andrea Doria nel 1547. Schiller, esponente allora dello Sturm und Drang, era un medico militare ribelle, a cui venne vietata l’attività di drammaturgo, ma che continuò, portando il manoscritto, più volte rivisto a Manheim.

I Masnadieri

L’opera era una tragedia in prosa in cinque atti, composta poco dopo “I Masnadieri” (parte del cui testo è stata scelta per le audizioni), rappresentata a Bonn per la prima volta nel 1783, e s’ispira all’opera storica del Cardinale de Retz che narrava, appunto, l’episodio antecedente in cui il nobile Conte di Lavagna, il giovane Fieschi, simpatizzante dei Francesi, tramò per spodestare il Doria, colpevole, a suo dire, delle lese e mortificate libertà genovesi.

La triste leggenda della galea e la vendetta di Andrea Doria 

Se, storicamente, il violento nipote, erede di Andrea, Giannettino Doria, rimase ucciso durante il primo e vittorioso assalto a porte e darsena della città, il fato volle che il Fiesco, nel tentativo d’impossessarsi di una galea, scivolasse su una passerella, annegando dopo la caduta in mare.

Di lì a poco, i suoi seguaci fuggirono, con il fallimento dell’impresa. Alcuni furono prontamente giustiziati, e altri non fecero più ritorno nella propria terra.

Definito “appassionatamente amante della gloria e non mancando occasioni per acquistarne, non pensava che al modo di farne nascere” e per quanto impavido, il Fieschi fu troppo fiducioso dei suoi mezzi. Alla sua morte, Andrea Doria, rientrato dal Masone dov’era rifugiato, intraprese una caccia spietata di tutta la famiglia, a cui tolse beni e titoli. Lasciò che il corpo annegato si decomponesse, per poi disperderne i resti in mare. 

La trasposizione teatrale di Piazza San Lorenzo

Nella trasposizione teatrale portata in scena, Sciaccaluga si mostra consapevole di trovarsi con un testo in linea con un’epoca di grandi cambiamenti rivoluzionari. 

Sono stati rappresentati, attraverso una scenografia impressionante estesa all’area urbana, il susseguirsi di tre giorni tragici per la Repubblica Marinara Genovese. La città è, fieramente, una delle poche realtà ad aver resistito a re e imperatori, e mantenuto l’indipendenza dal Medioevo fino alla fine del Settecento. Sciaccaluga definisce l’opera di Schiller un vero regalo, poiché scritta negli anni della fine della Repubblica.

Nello spettacolo, l’interpretazione ha sfiorato corde personali e antitetiche all’interno dei rapporti fra coppie ed individuali dei personaggi. Ad accentuare il tutto, risaltano i costumi dell’epoca reinventati, maschere e cappelli di diversi colori, come evidenti richiami visivi e comportamentali (il viola di Giulia Doria, il mantello bianco del Fiesco come anche l’abito di Eleonora, sposa di Gian Luigi).

Non sono mancati grande dinamismo e tensione incalzante con una musica contraddistinta da ritmi concitati, lirismo e impatto visivo molto forte.

Genova celebra se stessa

Inevitabilmente, trattandosi di un elogio alla città, non sono mancate battute in dialetto né momenti comici, anche in contesto similare. E lo sviluppo linguistico avviene fra linguaggi più austeri come quello del Doge, e la potenza della passione caratterizzante i personaggi più giovani e irrequieti. Rispetto alla storia nota, Sciaccaluga sceglie per il Fiesco la morte per annegamento causata dal disilluso Verrina, che finisce in mare con lui.

Un escamotage ideale che chiude un sipario-non sipario, creato con buio e silenzio, al quale sono sono seguiti numerosissimi applausi.

Emozionato, il regista, paragonando la Congiura allo specchio della sua città dalla silenziosa grandezza, ricolma di sentimenti nascosti eppure pulsanti, aveva così commentato:

«È importante raccontare una storia, una grande storia genovese in una sua grande piazza, che parla di oggi, di ieri, di domani… Di come la nostra sfera privata ed emotiva venga travolta dai grandi eventi collettivi.

Degli scontri feroci di una comunità in nome del bene comune. Del rapporto tra l’individuo e la società in cui vive. La bella caratteristica di una memoria austera rischia di far perdere i contatti col proprio passato»

La bella caratteristica di una memoria austera rischia di far perdere i contatti col proprio passato»(e come sempre, la storia passata è fondamentale, per quanto dolorosa possa a volte essere, per rappresentare monito e principio n.d.r.) […] 

Un teatro a 360°

A Carlo piace la caratteristica di riportare il teatro in luoghi non teatrali, come ha dimostrato anche a Lauro. Per inciso, per sua stessa ammissione, in riferimento alla Congiura, ha immaginato uno spettacolo che potesse essere visto a 360°.

«Mi piace l’idea di sperimentare e usare spazi alternativi, avviando anche una riflessione sul modello teatrale. In generale la frontalità imposta da un palcoscenico non mi fa impazzire»

Videochiamando (verso) il futuro 

Piccolo aneddoto, quando, rientrato dalla visita a Lauro, gli chiedo: 

«Pensi sarebbe troppo informale fare una videochiamata?» replica così:

«No, no, anzi. Aspetta che sto spazzando per terra e ci sono» (Ecco, questo che spiazza, come se fosse il coinquilino dell’università, è “Carlo”, oltre e non solo “l’artista Sciaccaluga” -n.d.r.)

Appare –quasi– rilassato e sorridente. Solare.

Indossa una camicia blu celeste che ne esalta lo sguardo, timido e sfuggente. 

Di lì a poco, svela, -come anticipato in precedenza- avrebbe intrapreso un viaggio per un progetto, perfettamente in linea con il suo carattere, creativo e curioso, in Kazakistan. (Nemmeno a farlo apposta, il celeste è il colore simbolo di quel luogo). 

La curiosità come parametro di visione del mondo:

non so cosa aspettarmi, ma sono sicuro sarà qualcosa di bello

CS: “Partiremo a breve, a ferragosto. Torno a Genova e poi riparto. Cambio valigia e via. Non so cosa aspettarmi, ma sono sicuro che sarà qualcosa di bello e stimolante, culturalmente, lavorativamente  e umanamente”. 

lo, Carlo e quel suo Cyrano: il bello dei social e l’umiltà di un uomo di teatro oltre la maschera

Ho avuto la fortuna di conoscere il giovane Sciaccaluga di persona, dopo aver visto il “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand diretto da lui, insieme a Marco Alfonso, nell’ormai lontano 2014. Interpretava, nello specifico, il personaggio di Valvert.

Ricordo benissimo quella sera, la prima volta in un teatro milanese della mia cugina che abitava a Parigi. (Prima di Emily in Paris, c’era già Nadia, insomma… n.d.r.

Si tratta anche di una delle mie più care amiche. Entrambe siamo rimaste estasiate e divertite da Antonio Zavatteri, Silvia Biancalana, Gabriele Lavia, Alberto Giusta, e dal resto degli attori in scena. 

Una volta rientrate, la mia amica mi ricorda che c’era anche “quel viso che da qualche parte lo aveva già visto…” Qualche giorno dopo, lo riconosce come uno dei registi. Carlo Sciaccaluga,  per l’appunto.

Ecco che è per me un privilegio raccontare di lui, del suo lavoro, dei suoi progetti, del mondo del suo teatro in cui è “minatore”, come suo padre Marco sovente ripeteva, e soprattutto, di parte del suo privato. 

Da quel primo spettacolo al quale ho assistito è passato tanto tempo, e Carlo è diventato sempre più bravo, come attore e in qualità di regista. Ci siamo re-incontrati in occasione di altre pièce (il classico pirandelliano “Sei personaggi in cerca d’autore” diretto da Gabriele Lavia, “Otello”, e parecchi altri). 

Con il tempo è stata evidente la crescita artistica, più matura e consapevole di Sciaccaluga come attore e regista. 

Non sono mancate per lui molteplici esperienze all’estero (è un grande estimatore dell’alta qualità del teatro albanese, dove ha lavorato, effettuando anche un lungo viaggio in Bolivia). 

Oltre a queste, ha preso parte a grandi classici come “Salomè” di Wilde, “Vita di Galileo” di Brecht, nuovamente diretto da Lavia, e “La Bottega del Caffè” di Goldoni, per la regia di Zavatteri (interprete strepitoso del Cirano nel 2014). 

Insomma, quanta vita è trascorsa! (n.d.r.)

Un’infanzia fra scuola e la scuola del teatro

Genovese nel cuore, grande tifoso del Genoa, è un bramoso cittadino del mondo, dove egli si immerge a capofitto: osservandolo, colpendolo, riorganizzando esperienze e memorie, ogni volta, come un avventuriero.

Il giovane Carlo è cresciuto, non solo metaforicamente, a pane e teatro: la mamma, scomparsa prematuramente nel 2008, era la nota costumista Valeria Manari

A lei, definita “architetto dei sogni”, per il genio e la creatività artistica, è stata dedicata una mostra sul costume allo Stabile. Il padre è il compianto  Marco Sciaccaluga.

Quest’ultimo, grande teatrante fra recitazione e pluripremiato regista, ha insegnato come docente all’Università Statale a Milano e al Motley Design Course Londinese. Per anni, ha svolto il ruolo di condirettore del Teatro Nazionale di Genova, del quale in seguito ne è divenuto consulente artistico, e direttore della Scuola di Recitazione. 

L’ambiente teatrale è stato pertanto un luogo particolare, dove i fratelli Carlo e Giovanni, ora insegnante a tempo pieno di arti marziali, sono stati di  casa.

Riprendendo il dialogo con Carlo…

In ricordo dell’amato babbo 

VF: “Riguardo al tuo papà, mi dispiace tanto, per quanto le parole poi non siano mai sufficienti di fronte ad alcuni vuoti”

CS: “Ma non ti preoccupare, le persone le senti anche se non le senti. Le parole sono sempre le stesse che si dicono in certi momenti”

(Per scelta, la conversazione in merito all’adorato e celebre papà Marco, così intima e profonda nella memoria, viene limitata nel rispetto dello spazio del dolore. 

Vi saranno pertanto, nel corso della lettura, solo pochi riferimenti del grande lavoro svolto da papà Marco durante l’estenuante percorso della pandemia. -n.d.r)

Marco Sciaccaluga: “ci sarà una volta il teatro”

Durante la pandemia Marco Sciaccaluga è stato capace di dare grande linfa e cuore al format su YouTube, intitolato Ci sarà una volta il teatro, in cui si raccontava con quell’ironia che lo aveva sempre contraddistinto. 

Quei video, che hanno avuto grande seguito di pubblico e streamers, rappresentano un prezioso testamento artistico in cui vi sono raccolti ricordi, riflessioni, particolari curiosi di una vita completamente dedicata al teatro

Oggi finalmente con le decisioni di Governo, abbiamo assistito alla lenta riapertura a capienza piena di questi luoghi sacri, di incontri, storia e storie mai del tutto uguali, relazionate al pubblico presente. In questi luoghi di cultura, didattica e scambio di continuità, le parole di questi artisti, come quelle, fra le altri, di Gabriele Vacis e delle sue proposte, con largo spazio al tempo delle prove, assumono ancora più importanza.

Come già anticipato anche dalle parole di Nappi, la pandemia ha inevitabilmente toccato tutto il mondo dello spettacolo, investendo i teatri (fisici), nonostante un numero pressoché inesistente di contagi durante la breve riapertura del 2020, allo stesso modo i teatranti si sono dovuti reinventare.

Molti di loro hanno creato gruppi via web per tenere compagnia alle persone durante il lockdown, per riavvicinarle a un’attività educativa e riflessiva comune rispetto ad un pubblico ritenuto, erroneamente, più di nicchia ed elitario. 

Dopo l’isolamento. Questa nostra avida pandemia che sfiora il teatro e attraversa le persone che lo vivono e lo rappresentano

VF: “Come è stato tornare in mezzo alle persone? In particolare alla tua Genova, riaprire e tornare fra le persone?”

CS: “Di fatto poi questa è la seconda riapertura, anche nel 2020 si era aperto un po’, benché più rapidamente, a cavallo dell’estate e dei mesi di settembre e ottobre, che di certo non sono i mesi più vivi per il calendario del teatro.

L’anno scorso, quando avevo fatto lo spettacolo a luglio (“Fly me to the moon”) al teatro Gustavo Modena a Genova ero, un po’ come tutto il mondo, in un’atmosfera molto tesa, molto emozionata, per cui c’era qualche cosa di prodigioso, di magico e allo stesso tempo c’era anche paura di tornare fra le persone. 

In poco tempo ci siamo abituati all’isolamento, questo anche da un punto di vista personale, e non solo artistico. 

Ricordo le prime volte in cui mi sono trovato a Pantelleria a ballare l’estate scorsa, e mi sembrava che ogni minimo contatto fosse indice di un’intimità spaventosa. 

Anche se fino a poco prima ci si era sempre baciati e abbracciati.”

VF: “Un pochino si può dire tu ne abbia preso un po’ il posto, l’eredità in qualche modo con il Teatro Nazionale di Genova? O meglio, te ne occuperai a tempo pieno?”

CS: “Si e no perché io vi ho fatto negli ultimi due anni due-tre collaborazioni, e prima non avevo mai lavorato. Tuttavia sono sempre un libero professionista. Mi hanno chiamato e sono stato molto entusiasta. Ovviamente per me è come se fosse casa mia, da una parte, in cui sono felicissimo di lavorare, per tantissimi motivi: professionali, in quanto è un grande teatro che lavora benissimo; e poi si aggiunge anche la componente personale ovviamente, che non riguarda soltanto per mio padre e mia madre, e lo dico, non bisogna mai dimenticarsi, ma anche per le persone che quel teatro lo vivono tutti i giorni. Mi emoziona sempre. No, non ne ho preso il posto in alcun modo se non occasionalmente. E in questo momento della mia vita, almeno strettamente personale, sono intenzionato a viaggiare e scoprire il più possibile dovunque mi porterà. 

Questo almeno fino a quando non avrò una famiglia che mi terrà ancorato a una terra”

VF: “Tanto poi casa è sempre casa…”

CS: “Si, casa è casa, e Genova è casa per me. Non me ne sono mai andato, tant’è che nel giorno di riposo io torno lì”.

VF: “Fino a quanto starai via?”

CS: “Fine ottobre… o al prossimo cambio di stagione insomma”

VF: “Fa uno strano effetto comunque rivedersi in termini di intervistatrice e intervistato, no?”

CS: “Eh si dai… un po’! Però dai, è come se ti raccontassi dopo un po’ ciò che è accaduto nel tempo che non ci siamo sentiti. Solo un po’ più unilaterale perché parla di me” (sorride con quella naturalezza di amici che si ritrovano dopo tanto tempo di fronte a una fresca bevanda estiva, n.d.r.)

Il coraggio del Teatro Nazionale di Genova e le produzioni post riapertura nel 2021: “mi scappa sempre un noi”

Una citofonata dopo, fra un paio di risate, Sciaccaluga riprende:

CS: “Quest’estate (2021), invece, è già un po’ diverso perché la riapertura è avvenuta un po’ prima del mio spettacolo, e quindi mi sono sentito meno spaesato

Poi, inevitabilmente, abbiamo comunque navigato un po’ a vista da un punto di vista -difficilissimo- organizzativo. Tutti molti bravi infine, benché non eravamo nemmeno certi di come avremmo fatto fisicamente il tutto: c’era ancora il coprifuoco quando l’opera è stata pensata. 

Un grande sforzo produttivo, nonché una grande scommessa da parte della direzione del Teatro di Genova, che ha creduto e investito risorse e professionalità per un progetto che non c’era ancora la certezza di poter fare.

Ma la direzione del Nazionale di Genova è molto coraggiosa, e sono molto contento perché non si è mai fermato. Ha continuato a lavorare anche a teatri chiusi, quando possibile, procedendo con le prove degli spettacoli. 

Non a caso, eravamo pronti ai blocchi di partenza, non solo con il mio spettacolo, ma anche con quello di altre produzioni. 

Come vedi, mi scappa sempre un noi, come prima persona plurale perché affettivamente mi sento parte di quel Teatro, anche se formalmente non lo sono.”

VF: “Credo sia una cosa più unica che rara. Bellissima”

CS: “Si, ma questo non può cambiare: giocavo a nascondino sotto le poltrone, coperte dai teli, del Teatro della Corte, durante le prove di “Amleto” di Bergson quando avevo 5 anni con mio fratello.”

VF: “Un’infanzia unica, fortunatissima e difficilmente descrivibile a parole per chi non l’ha condivisa”

(Spunta un altro sorriso timido mentre annuisce)

 

NB: l’intervista segue in altro articolo di approfondimento, stay tuned su VanityClass!

A cura di Veronica Fino

Redazione

Scritto da Redazione

La redazione di VanityClass.

Victoria Torlonia

Victoria Torlonia: tanti applausi al Coin Excelsior di Roma

J-Ax

J-Ax e Fedez hanno fatto finalmente pace