Da quando il movimento #MeToo è esploso a livello mondiale, assistiamo spesso e volentieri ad una brandizzazione del femminismo. Non a caso, negli ultimi anni è diventato di uso comune anche il termine femvertising, nato dalla combinazione di feminism e advertising, che identifica le campagne il cui scopo è quello di presentare modelli femminili forti, positivi e propositivi per abbattere preconcetti che dovrebbero essere ormai superati da tempo. Campagne, però, che il più delle volte non hanno un’autentica sostanza di fondo e mirano unicamente ad incrementare la credibilità e il profitto, che sia monetario oppure no, di chi se ne fa portavoce.
Basti pensare a quei brand sempre pronti a mostrarsi come paladini di una battaglia, pur non possedendo delle politiche o etiche attive in tal senso all’interno delle proprie aziende e che mantengono, dunque, un impegno di facciata. O ancora, alle cosiddette “influ-attiviste”, influencer o divulgatrici seriali che si auto-consacrano esempi viventi in rappresentanza di tematiche e/o lotte sociali attuali, sebbene abbiano poco o nulla a che vedere con loro, nella speranza di mantenere alto il proprio indice di engagement. Tra queste non poteva di certo mancare Chiara Ferragni, la classica milionaria piuttosto avvezza a sposare le più disparate propagande soltanto quando le fa più comodo, giusto il tempo di un like o di una Instagram story o di una nuova copertina in edicola o di una pacca sulla spalla alle sue fragili convinzioni, per poi dedicarsi alla prossima réclame di cui diventare testimonial senza avere il men che minimo riguardo.
Perciò, come non presentarsi al Festival di Sanremo, una delle più grandi vetrine d’Europa a cui si è addirittura invitati nelle vesti di co-conduttrice, per ottenere facili consensi, sventolando la bandiera di un femminismo spicciolo intriso di banalità?!
Il minestrone delle ovvietà di Chiara Ferragni all’Ariston
Nel corso della prima serata della 73esima edizione del Festival della Canzone Italiana, infatti, la Ferragni, sul palco al fianco di Amadeus e Gianni Morandi, ha voluto dedicare una lettera alla Chiara bambina. Un messaggio di Chiara Ferragni, letto da Chiara Ferragni, per la piccola Chiara Ferragni da una Chiara Ferragni adulta, tant’è che quel che ne è venuto fuori è stato un elogio egoriferito fine a se stesso.
Nel vano tentativo di far mostra di quelle infinite qualità nascoste che vanterebbe di possedere, la moglie di Fedez ha deciso di mettersi a nudo (quasi letteralmente!) al grido di “non bisogna mai vergognarsi del proprio corpo” nell’esatto istante in cui sui suoi canali social ufficiali venivano pubblicate foto opportunamente patinate e affidando la propria body positivity alle griffe più in voga sul mercato. D’altronde, si sa, è l’immagine che conta, non il contenuto. Ed è proprio questo ciò che ha portato all’Ariston, un’immagine vuota rimpolpata da femminismo instagrammabile e retorica fast-food che fanno bene solo a lei.
L’ode al falso mito del “se vuoi, puoi”
Il suo monologo, in effetti, che ha inspiegabilmente riscontrato il plauso dell’intera platea e della stampa di mezza Italia, aveva uno scopo ben preciso. Dar voce alle donne che da anni combattono per poter vedere riconosciuti i loro diritti? Mettere a disposizione la propria visibilità per supportare un movimento? No: riempire il prodotto di un marketing fatto bene con un briciolo di umanità. Così, giusto per renderlo più credibile e avvicinarlo maggiormente al pubblico.
Non a caso, quello che poi si è rivelato essere un minestrone di ovvietà di cui non so chi ne avesse bisogno, era condito da una buona dose di hating, maternità, orgoglio femminile, normalizzazione (di cosa, poi, non si è ancora capito), egolatria scambiata per autodeterminazione, frasi motivazionali che Tumblr in confronto è un blog da quattro soldi, bodyshaming, vittimismo, stereotipi di genere e commenti già sentiti. Il tutto, naturalmente, opportunatamente suffragato da alcuni scatti, nemmeno se su internet non ne circolassero già abbastanza, di lei insieme a i suoi bambini e dalla lacrimuccia facile di turno per suscitare compassione ed empatia nei telespettatori. Il risultato, neanche a dirlo, è stato il ritratto di una Chiara insicura, fragile e indifesa che, nonostante tutto, è andata avanti e ce l’ha fatta, ha superato numerosi ostacoli ed è riuscita a realizzare i suoi sogni.
In altre parole, un ode al falso mito del “se vuoi, puoi” per sostenere che, dopotutto, Chiara è solamente una comune ragazza al pari di tante. Tuttavia, non è esattamente così. A differenza di molte e forse troppe donne, la Ferragni è e resta una privilegiata che finge di non esserlo. Ed è proprio in virtù di ciò che, a mio avviso, le campagne che abbraccia perdono di valore.
Il femminismo del privilegio
Difatti, le fondamenta del femminismo non si basano su una spartizione di potere e influenza con gli uomini, o peggio, sull’arrivare dove si vuole arrivare perché “se l’uomo può farlo, posso farlo anche io“. Al contrario, ciò che si prefigge è distruggere suddetti meccanismi a favore di una società più equa. Pertanto, nella logica social, il rischio è quello di trasformare un movimento collettivo in un moto di affermazione individuale, solitamente legato, come in questo caso, alla retorica berlusconiana dell’imprenditrice che si è fatta da sola, chiudendo gli occhi sul fatto che, magari, alle radici di un eventuali successo ci sia quasi sempre una base economica di partenza che le altre si sognano.
Insomma, alla fine si scopre che, anziché lottare per l’uguaglianza sociale, si sta lottando per l’uguaglianza di genere a proprio vantaggio, trasformando la lotta sociale vera e propria, la stessa di cui ci fa promotori, in un innocuo brand-activism che non mette in discussione pressoché niente.
È facile, quindi, per una che forse ha scambiato il femminismo per self-branding, parlare a se stesse di sé stesse per sé stesse e per nessun altro, ma è proprio in questo modo che discorsi del genere, seppur nati dalle migliori delle intenzioni e fatti passare per ciò che in realtà non sono, finiscono puntualmente per rimanere dei grandi e sbagliati cliché!
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