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Cloris Brosca: lo “specchio” della vocazione artistica, autenticità e consapevolezza

In esclusiva per “Cineincanto” Cloris Brosca condivide suggestioni del suo viaggio d’attrice.

Come una divinità precolombiana Cloris Brosca porta con sé un’aura magica di fascino e magnetismo che ha conquistato il teatro e il cinema italiani. In questo dialogo scopriamo la generosità di chi ha mantenuto, in parallelo cammino, l’evoluzione artistica e quella umana e immaginiamo il suo sguardo e la sua inconfondibile voce che ci riporta al calore e alla bellezza di lontani paesaggi del sud.

Cloris Brosca: lo "specchio" della vocazione artistica, autenticità e consapevolezza
Cloris Brosca

Cloris Brosca – Cineincanto

Com’era Cloris Brosca quando ha iniziato il suo percorso di attrice con de Filippo?

Il mio percorso di attrice a dire il vero è cominciato a Napoli con un insegnante di recitazione che si chiamava Mario Ciampi: è con lui che a 16 anni ho cominciato a studiare ed è stato sempre lui a prepararmi per gli esami di ammissione in Accademia. Quando vi fui ammessa, nell’ottobre del 1976, mi sembrò di vincere un terno al lotto: da lì cominciò un percorso entusiasmante insieme ad altri ragazzi che come me cominciavano a studiare, lì a Roma, e a fare teatro: un periodo bellissimo. In realtà, però, più profondamente – hai ragione – il mio percorso teatrale è cominciato proprio con Eduardo De Filippo e prima di lavorare con lui come attrice: mia madre, che amava molto il teatro (da bambina sua zia Clori la portava spessissimo sia a teatro che all’opera) accompagnava con piacere me e mio fratello, ancora piccoli, al San Ferdinando – il teatro di Eduardo – a vedere le sue messe in scena. Posso ancora richiamare alla memoria il sentimento di stupore -ma forse sarebbe meglio dire sgomento – che provai la prima volta che entrai in teatro per vedere una rappresentazione. Tutta quella gente seduta al di qua nell’ombra (e io con loro) e quell’altro gruppo di persone al di là – in quella inconsueta stanza a tre pareti aperta verso di noi – che parlavano di cose loro e noi dal buio o semibuio che li osservavamo, spiandoli quasi. Lo capivo bene, guardando i miei vicini, che si trattava di partecipare a un rituale consolidato con delle proprie regole conosciute e tacitamente accettate, fatto sta che nel tempo sono passata dallo sgomento all’interesse e, in maniera inconsapevole prima, uscendo allo scoperto poi, ho messo a fuoco che in realtà io volevo stare al di là: volevo far parte di quelli lì che sotto quelle fioche luci (così me le ricordo) officiavano la loro, per me ancora enigmatica, cerimonia.

Tu vieni da una formazione teatrale presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’amico; le esperienze con Tornatore e poi con Troisi in “Ricomincio da tre” sono state un traghettamento al cinema. Cosa hanno significato per te?

Ho lavorato troppo poco al cinema per dirlo: potrei, se avessi lavorato di più e consolidato una mia idea di che cosa voglia dire essere un attore/attrice di cinema, fare il paragone con quelle prime volte e raccontarmele in qualche modo. Oppure dipende semplicemente dalla mia tendenza ad essere un po’ sempre Alice nel paese delle meraviglie il rappresentarmi e fissare nella memoria quegli incontri nella loro unicità, come accadimenti a sé stanti. Mi ricordo, a proposito di Massimo Troisi, il suo magnetismo di attore: uno che semplicemente entrando in scena porta con sé l’atmosfera, il tono del film: cosa a cui probabilmente allora non ho fatto veramente caso. Eppure ora, per esempio, ricordando Ricomincio da tre, mi viene in mente, tra i momenti del film a cui ho partecipato, una sorta di informale riunione di famiglia con i vari componenti in pigiama – chi in piedi, chi seduto su un letto – e la presenza di Troisi che entrando in scena, immediatamente, con la sua sola presenza, trasforma quel set nella vera camera da letto di una casa reale. Di Tornatore ricordo l’autorevolezza: nel suo primo film, Il camorrista, ripenso con stupore alla sicurezza e alla maestria con cui si muoveva sul set di un film di così grandi dimensioni, e la sua disposizione ad accogliere comunque, anche in una situazione già organizzata e pianificata, l’elemento nuovo, insolito, che si presentava inatteso e che la sua creatività gli suggeriva di includere nel racconto. In situazioni simili c’è solo da aprire gli occhi e imparare.

Cloris Brosca: lo "specchio" della vocazione artistica, autenticità e consapevolezza

Il 1994 è stato l’anno del boom de La Zingara, che ricordi hai del provino e poi del grande successo?

Del provino ricordo una ventina di altre attrici tutte come me vistosamente truccate e abbigliate in modo zingaresco con collane, foulards, scialli, bracciali, orecchini appariscenti. Tra le altre, una, Daniela Marazita, che già conoscevo, fece il provino prima di me e fu così gentile da dirmi qualcosa di come procedeva l’incontro: quelle poche frasi ebbero l’effetto di tranquillizzarmi e sciogliere un po’ la tensione che accompagna quasi sempre prove del genere. Lo dico perché sono sempre colpita dalla gentilezza e dalla generosità delle persone e quella collega, al di là del momento in cui avvenne la cosa e dell’esito favorevole che ebbe poi il mio provino, mi ha regalato un ricordo che mi è molto caro. Del grande successo ricordo soprattutto l’affetto e la simpatia di tante persone sconosciute incontrate casualmente un po’ dappertutto.

La psicomagia di Jodorosvky è stata importante per la tua formazione. Quali sono stati i benefici nella tua vita di donna e di attrice?

Da ragazza conoscevo Jodorowsky solo come cineasta: andai a vedere il suo film La montagna sacra a Napoli negli anni ‘70 insieme al gruppo di amici che allora frequentavo e rimanemmo folgorati da quel racconto metaforico carico di immagini, di poesia. Quando molti anni dopo in libreria mi capitò tra le mani il suo Psicomagia lo comprai semplicemente per il desiderio di avvicinarmi un po’ all’autore di quel film che da ragazza mi aveva tanto colpito. L’argomento del libro è davvero affascinante e affascinante è l’intento che vi è descritto di parlare all’inconscio, con il linguaggio stesso dell’inconscio, attraverso la messa in atto di azioni psicomagiche ideate e prescritte da Jodorowsky, caso per caso, alle persone che si rivolgono a lui consultandolo su aspetti più o meno problematici delle proprie vite. La lettura è decisamente appassionante: vi si parla del suo percorso di apprendistato con una guaritrice messicana, dell’elaborazione del suo particolare metodo e di alcuni casi specifici con la descrizione delle relative azioni psicomagiche proposte da Jodorowsky, alcune decisamente stupefacenti. Ho partecipato a Roma, Napoli e in altre città italiane ad alcuni suoi seminari dal vivo su tarocchi, psicomagia e psicogenealogia, un metodo elaborato da Jodorowsky per studiare e meditare sul proprio albero genealogico, al fine di curare ferite, traumi o semplicemente disagi, collegati alla propria storia familiare. Ho anche fatto mie e messe in pratica, al di là di azioni psicomagiche suggerite da Jodorowsky per singoli casi specifici, le azioni da lui consigliate a proposito di tematiche più generali – come lo sblocco della creatività, per esempio – e devo dire che hanno avuto effetti davvero potenti nella mia vita. I suoi libri – autobiografie e romanzi autobiografici, ma anche il suo libro sui tarocchi o quello dedicato ai Vangeli – sono stati per me delle letture ispiranti e a tratti davvero entusiasmanti. E ti dirò, Carlo, che questa tua domanda su Jodorowsky mi fa venire voglia di comprare i suoi nuovi libri: più di una volta, per me, l’incontro con il suo pensiero è stato rigenerante.

Cloris Brosca: lo "specchio" della vocazione artistica, autenticità e consapevolezza

C’è un episodio che mi raccontasti tempo fa che mi colpì molto e che riguarda la scintilla magica del tuo essere attrice. Riguarda la tua infanzia, lo specchio e il pianto. Ce ne parli?

Scintillante è vero: si parla di lacrime e di specchi. Ricordo l’episodio: ero piccola, non so quanto, avevo forse 4 o 5 anni. Stavo piangendo, non ricordo quali ragioni avessero provocato il mio pianto, fatto sta che, quasi subito dopo essere scoppiata a piangere, corsi in camera da letto. Mia madre incuriosita mi seguì e mi trovò davanti a uno specchio mentre mi osservavo. Mi chiese cosa stessi facendo e io le risposi che stavo guardando com’ero mentre piangevo. Allora mi disse qualcosa del tipo: “Quindi non stai piangendo veramente, il tuo pianto non é “vero””. Io non seppi cosa replicare: sapevo che il mio pianto era sincero e che era sincera anche la mia curiosità e la mia voglia di vedere il mio aspetto mentre piangevo. Capivo, però, o meglio intuivo, il suo dubbio: delle due l’una: o sei coinvolta nell’esperienza del piangere e quindi non esiste altro o sei presa dall’osservazione del pianto e quindi non sei totalmente identificata con il pianto. E questo non essere totalmente identificata con il pianto ne metteva, per mia madre, in dubbio l’autenticità, come se le ragioni che avevano causato il mio pianto non fossero poi così gravi, consistenti, sincere: come se io, in definitiva, avessi solo fatto finta di piangere. Mia madre era più che sicura del fatto suo e credo che, in quell’occasione, iniziò anche a prendermi in giro, forse perché a sua volta si era sentita presa in giro da quel mio pianto che le era sembrato, alla prova dei fatti, inautentico. Ma io non mi sentivo affatto inautentica, né tantomeno falsa, solo non ero in grado di spiegare e prendere le difese di quella mia voglia di esaminare, come in una sperimentazione scientifica, un’azione nel momento stesso che si verificava e rivendicare il fatto che questo osservare non inficiava il valore, la validità, la veridicità dell’azione stessa. Penso che con ogni probabilità quella mia curiosità fosse nata in precedenza: una volta, prima di quella, che mi era capitato di piangere, avevo detto a me stessa: la prossima volta che piango voglio andare davanti a uno specchio per vedere che faccia ho mentre piango. Ora questa capacità di sdoppiarsi – o meglio di scoprire/riconoscere che dentro di noi esistono più parti e che queste parti possono, anzi in alcuni casi devono, agire nello stesso tempo, separatamente, ha sicuramente – hai ragione – a che fare con la recitazione, forse con il nucleo stesso della recitazione: infatti un attore deve essere autentico, ma nello stesso tempo ha il compito di “usare” quell’autenticità con consapevolezza, all’interno di un contesto di per sé “finto”, o meglio costruito ad arte – come un set cinematografico o una scenografia teatrale – e all’interno di un procedimento – costituito dal copione o dalla sceneggiatura e dall’interazione con altri attori – che ha ovviamente dei limiti prestabiliti a cui attenersi, pena il pericolo di compromettere l’intero percorso in cui ci si trova ad agire. Detto in altre parole un attore deve lasciarsi andare, ricreare un percorso vivo, non subordinato agli ordini della mente, ma nello stesso tempo deve anche usare la mente per difendere la sua creazione e sorvegliarne il processo di interazione con gli elementi del contesto in cui è inserita.

 

Cloris Brosca: lo "specchio" della vocazione artistica, autenticità e consapevolezza

Com’è oggi Cloris attrice?

Non so bene. Sicuramente sono in un momento di riflessione, di ricerca, probabilmente sull’orlo di un cambiamento.

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www.carlofenizi.com 

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