In un dialogo che si apre con il suo inconfondibile sorriso, scopriamo saggia spensieratezza e profonda umanità. Francesco Paolantoni ascolta e guarda con argutezza e ironia sé stesso e il mondo, e restituisce la leggerezza e la poesia dei suoi personaggi attraverso racconti e ricordi di una luminosa carriera.
Si dice che ci sia una relazione tra l’essere nati a Napoli e l’attitudine alla recitazione. Forse questo legame si è trasformato in un luogo comune, la cui veridicità è confermata, però, dal percorso artistico di molti attori. Tu che sei un attore di Napoli, credi in questo legame? Se c’è, perché esiste secondo te?
Sì, è diventato un luogo comune, ma è vero. I napoletani storicamente sono stati vittime di tante situazioni difficili, di ingiustizie e per questo hanno sviluppato un senso di ironia e di sopravvivenza che li ha protetti dalle vessazioni. La lingua napoletana ha un’espressività, una musicalità e una teatralità che fanno la differenza. Napoli è la patria della commedia e noi abbiamo questa risorsa nel DNA. È una marcia in più, chi ne è dotato particolarmente sa come codificarla.
A proposito delle tue radici e dei tuoi inizi, perché sei un attore?
È una dinamica inspiegabile. Ho pensato, ho sperato e ho voluto, sin da bambino, che questo diventasse il mio mestiere, quindi non ti so dire che meccanismo sia scattato. Frequentavo molto i cinema da spettatore. Mia sorella più grande, sin da piccolo, mi portava a vedere film di ogni genere. Sono cresciuto guardando Edoardo e Totò. Evidentemente avevo un’attitudine. Non ho mai pensato di fare altro, ho realizzato il sogno di bambino. C’è chi ci arriva in altri modi, per una decisione di calcolo, io ci sono arrivato perché l’ho sentito e questo è impossibile da spiegare. È un mistero della mia genetica.
Io ho avuto maestri ideali, ispiratori, però solo attraverso le loro opere perché l’evoluzione del mondo del cinema non ha facilitato tanto la mia generazione nell’avere, concretamente, fisicamente, dei maestri. Tu ne hai avuto uno?
Chiunque ti stia accanto ti arricchisce e ti dà qualcosa, come è stato con tutte le persone con cui ho lavorato. Però, come tu dici, se parliamo di maestri in senso stretto, anche io li ho avuti in forma virtuale. I miei riferimenti sono sempre stati altissimi, quelli che ho già citato, come Edoardo e Totò. Impossibili da raggiungere ma di grande ispirazione, almeno per quel che riguarda la mia cifra, quella napoletana, più comoda per me. Ma anche Jerry Louis è stato un grande riferimento. In qualche modo si assorbe anche attraverso le contaminazioni di generi e culture. Nel modo di fare di tutti, di porsi agli altri, nella vita o sulla scena, viene sempre fuori un qualcosa di qualcun altro.
Avevo 14 anni quando vidi con i miei genitori “Baci e abbracci” di Virzì. Nonostante la mia giovane età, fui colpito dalla poesia della tua interpretazione, non a caso ci siamo incontrati da regista e attore in un mio film del 2013. Hai un ricordo particolare di quell’esperienza con Virzì?
C’era un’atmosfera particolare. Paolo Virzì è un regista di grande personalità, molto coinvolgente. Eravamo molto in sintonia. Al di là del lavoro, è stato un momento molto piacevole. Fu un’esperienza forte. Mi diverte molto fare il comico e fare me stesso però adoro anche interpretare, mi piace affidarmi a un regista che stimo per rappresentare ciò che lui immagina e mettere me stesso a servizio della sua visione. In quel film eravamo in una cascina a Cecina, d’inverno, c’erano un’unione e un’armonia speciali.
E di “Liberate i pesci” di Cristina Comencini, per cui hai avuto una candidatura a uno dei più importanti premi italiani?
Già avere una candidatura ai David di Donatello è molto (ride). Anche quella fu una bellissima esperienza. La Comencini è bravissima. C’era anche Solfrizzi, con lui ho riso tanto e c’era sintonia. Abbiamo girato a Lecce, in un ambiente fantastico. Quello era il tipo di cinema che volevo fare. Feci una scelta ben precisa in quel momento della mia carriera perché all’epoca, ricordo, mi proponevano molto frequentemente situazioni cinematografiche più commerciali come i cinepanettoni. Invece a me, da spettatore, piace vedere un altro tipo di cinema, più autoriale. Aver avuto l’opportunità di lavorare in quella tipologia di film è stata una grande soddisfazione e un grande piacere. Poi la strada del cinema si è alternata con la televisione e il teatro, è la regola del gioco. Il teatro che sto facendo ora, lo faccio con molto divertimento e per un attore come me è la prima cosa.
Mi piacerebbe tanto trovarmi nei panni di un attore nei pochi secondi antecedenti al primo ciak di un film. Cosa si sente?
È molto soggettivo. C’è chi “se la fa sotto” e c’è chi, come me, si entusiasma all’idea di scoprire quello che succederà. Non provo mai una tensione che si trasforma in timore o in preoccupazione. In me, prende sempre il sopravvento la curiosità di vivere ciò che sto per fare. Ho un’emozione sempre molto allegra e positiva e questa cosa mi piace molto.
Quella sensazione è paragonabile con l’entrata in scena a teatro?
Sì, mi succede la stessa cosa a teatro: non sento mai il panico. C’è l’entusiasmo di sapere come andrà.
Domanda più insidiosa: c’è in te una gerarchia di emozioni tra questi due momenti?
Decisamente: l’entrata in scena a teatro. Mi immergo in una situazione reale, con le vibrazioni del pubblico, facendo una cosa che non si può ripetere. È un’emozione diversa. Il cinema mi trasmette una sensazione più giocosa. Il teatro, che ti permette di avere a che fare direttamente con il pubblico, ti concede una mutua emozione con la platea che restituisce le tue energie. È un impatto molto forte.
C’è stata una fase nella tua vita in cui un personaggio, nel cinema o nel teatro, ha rappresentato un aspetto della vita personale che stavi vivendo in quel momento?
Non è mai successo nella mia attività di interprete, a cinema o a teatro, ma è stato un bene perché mi piaceva essere e scoprire altro da me. Invece i personaggi che invento io come comico fanno tutti parte della mia personalità e di una parte del momento che vivo. Difficilmente guardo al di fuori e faccio mio un qualcosa che poi riproduco. C’è sempre un aspetto della mia personalità che viene amplificato e a cui attingo. Quando ero il personaggio di “Ho vinto qualche cosa”, per esempio, attingevo certamente alla mia natura naif.
Che senso ha l’ironia nella tua vita?
Io credo che l’ironia ci debba accompagnare sempre. Se le dessimo più spazio e voce, camperemmo molto meglio. Per me, che la pratico per professione, ovviamente, è vitale. Non è facile però, soprattutto, saper raggiungere il giusto equilibrio. Nella mia vita di uomo anche l’ironia fa parte della mia genetica. Ha preso naturalmente il sopravvento in me che all’inizio facevo un tipo di teatro diverso, classico, serio. Ritengo che ognuno abbia una tipologia di intelligenza diversa. L’ironia è una di queste.