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Giornata contro la violenza sulle donne

Lettera aperta contro la violenza IN genere: meno perbenisti, più perbene

Troppe volte si nascondono i lividi per vergogna, a scapito di chi dovrebbe provare onta di tanta malignità intrinseca espressa in aggressioni e discriminazioni di genere.

25 Novembre: una giornata contro la violenza sulle donne

Tutti noi, oggi più che mai, diciamo “No alla violenza sulle donne”.

Il 25 Novembre è, infatti, la Giornata contro la violenza sulle donne, contraddistinta dall’hashtag #nonènormalechesianormale

Fra le tante iniziative proposte per implementare la parità di genere, oggi si riconosce all’unanimità  la ricerca di sensibilizzazione per le donne che subiscono vessazioni. E lo si fa anche esortando a denunciare i loro carnefici.

Sono, queste, vittime di violenza fisica, psicologica, sfortunatamente spesso domestica.

Sovente, imprigionate nel silenzio, in un insieme di torture perpetrate in forma multipla.  

La mia lettera aperta ai perbenisti

Ebbene, per la prima volta, pubblico una lettera aperta per sensibilizzare maggiormente sulla tematica più ampia, alla ricerca di una normalità che non preveda più l’uso di metodi ferini. Siano essi verbali, virtuali, omertosi, o su un corpo, sulla base della sua “inferiorità”, poco cambia. 

Costa cara la fragilità…

Mi trovo così, col permesso della redazione di VanityClass, a parlare, per una volta, di me come persona fragile. “Fragile poiché resa invalida nel corpo da una malattia degenerativa. Tuttafiata, e per mia fortuna, il mio limite non riguarda attitudini intellettuali, né caratteriali.

Mio malgrado però, sono una donna che, poco più che adolescente, è stata segnata da una sofferenza, psicologica e fisica.

A causarla, un ex fidanzato geloso, aggressivo e totalmente fuori controllo. Sebbene sia accaduto molti anni orsono, sfortunatamente, ha lasciato un grosso segno. Ha inciso in me la paura, quell’intimo terrore che penetra nelle ossa ad ogni vicolo buio.

Un senso di ragno malriuscito che ti fa scattare.

…Quando sei assopita e senti la maniglia della porta di casa muoversi

…quando esci o rincasi, con la perenne sensazione di essere seguita, osservata. 

Quel timore che, per quanto possa avermi rafforzata, sensibilizzata per molti aspetti, ha condizionato molto del mio tempo e della mia salute. Inevitabilmente, anche le relazioni umane si sono compromesse. 

Ho passato ben due anni a non poter rientrare a casa senza che mi accompagnassero fin dentro, controllandola in ogni angolo, i miei due amici più cari, scomparsi a distanza di dieci anno l’uno dall’altro.

Credo che sia esattamente questo loro vivido ricordo a spingermi, per la prima volta, ad aprire un capitolo del mio vissuto più doloroso in forma prosaica. 

Il più letale dei virus-cecchini

La violenza, come l’ignoranza, è lo strumento umano più letale e infimo. Propaga da un singolo episodio, caso, o persona, e si amplifica, ammorba e attanaglia, portandosi dietro soprusi, isterismi, pianti, vittime.

Purtroppo, spesso raggiunge il più becero livello, quello dell’omicidio. E troppo di frequente, si tratta di femminicidio.

Passionale, casuale, premeditato o meno, così come la pedofilia, quest’atto rappresenta la più bieca forma di mostruosità umana.

Inoltre, la brutalità obnubila le menti, nella convinzione che la propria libertà divenga motivo di lesione di quella altrui.

Un esempio di (sur)realtà sfociata in furia

I numeri di aggressioni sono in costante crescita e, ancor più dopo il periodo del lockdown.

A volte quelli che vediamo come semplici numeri, dietro ai quali ci sono storie, volti, drammi, li crediamo lontani da noi, ma, troppo spesso, ci toccano da vicino.

(O ci toccherebbero, se imparassimo ad osservare)

Ora citerò un fatto personale che sa quasi (?) di surreale.

Un episodio risalente a circa tre anni fa, nello studio del mio medico di base.

Una situazione allucinante anche da metabolizzare, credetemi.

Dopo un ricovero ospedaliero, avevo appuntamento fissato dal medico. Naturalmente, le carte da far visionare erano molte e mezz’ora buona era già trascorsa, quando un uomo sulla quarantina, strafottente e maleducato, bussa con forza sulla porta.

Io dico al medico di seguire il signore, e che sarei tornata nuovamente, qualora necessario.

Quest’ultimo si alza, esce dalla porta e l’energumeno mi aggredisce verbalmente, con titoli e allusioni deplorevoli su ciò che, a suo dire, stava avvenendo nello studio.

Il medico lo prega di lasciare il luogo seduta stante e di non tornare, io mi faccio piccola piccola (retaggio di quel terrore degli anni precedenti) e cerco di uscire, “scortata” verso la porta dal mio medico.

Infervorato e ancor più incattivito, l’uomo si avventa e inizia una colluttazione fra i due, con il sanitario che prova a tenerlo e l’altro che si accanisce.

Il risultato è l’asta degli occhiali rotta del Doc, oltre a una “centra” che ha colpito me sul viso.

Del resto ricordo poco, annebbiata dalla crisi di ansia successiva.

Più sconsolante e grave è il fatto che nessuno abbia pensato di intervenire.

La solitudine delle vittime

Nessuno ha protetto una paziente, una donna, oltretutto.

Nessuno ha preso le difese di un medico che eseguiva il suo lavoro.

Soggetti della peggior specie, pazienti come me, alcuni hanno avuto persino la cattiveria di dare manforte all’uomo. Che, vien da sé, al richiamo della dottoressa sopraggiunta dalla stanza accanto, dopo aver chiamato le forze dell’ordine, è fuggito.

Denunciato, ma -intanto- IO ho trascorso due mesi con trucco sul viso e sciarpe varie a coprirmi, come se fossi io, quella sbagliata

Ricordo di aver guardato quelle persone, omertose, che hanno inveito prima, e compatito poi, con gli occhi smarriti all’arrivo del mio compagno.

Per inciso, il poverino è stato malvisto dai passanti nei giorni successivi, come mio aggressore, suppongo, dagli sguardi attoniti e bruti. 

Certamente, è più facile giudicare che intervenire.

Se fosse stato realmente lui, mi chiedevo, chi mi avrebbe aiutata? E come?

Infine, in particolare: quando?

La violenza è una mina che va disinnescata

Come le bombe, per disinnescare un circuito di simile ferocia servono metodi e ragioni corrette.

Non aprirò ulteriormente sul mio trascorso, in quanto penso vi siano sedi e luoghi per ogni cosa, e spero di non essere oggetto di grande presa di esempio, negativo o positivo che sia.

Al contrario, mi auspico che chiunque si accorga di una persona in difficoltà trovi il coraggio di aiutarla.

Coraggio, esattamente, perché si fa presto a dire, ma è più complicato fare.

A volte spaventa, ed ecco che per mistica magia oscura, il loop della paura ricompare. 

Mi permetto di digitare queste parole buttate giù di getto, pensando all’eccessiva ed imperante forma di violenza che si vede in ogni ambito: social, culturale e, più che mai piaga sociale, in tutte le manifestazioni ridondanti, che, suppongo e temo, aumenteranno.

E, nuovamente, diffido avvengano in maniera pacifica, con l’introduzione del “Super GreenPass”.

Ci tengo a sottolineare che sono, come sopra citato, una paziente fragile, che si è prestata ad uno studio di ricerca su vaccino e cure (un semplice esame del sangue) già nell’aprile 2020.

E, scrivo senza remore, anche di aver già avuto la mia terza vaccinazione contro il Covid-19, con i canonici richiami di antinfluenzale e antipneumococco per esigenze immunologiche. (Nessun effetto indesiderato, e io sono allergica persino alla polvere del famoso cacao dolce nel barattolo giallo rappresentato da un coniglio…)

Premettendo ciò, trovo che l’imposizione non sia la strada più giusta, come di contro, dovrebbe esserlo la dose di informazione e superamento delle paure.

Il dialogo costruttivo, a mio personale parere, non può altresì che rivelarsi sempre la soluzione ottimale, posto che vi sia chiarezza da ambedue le parti.

La violenza: di genere, in genere, condannatela sempre

Su questa base, mi sento in diritto, come donna, come figlia, come sorella, come persona e come essere umano, di ardire ciò che segue:

Se pensate che la violenza verbale, o, peggio, quella fisica, siano giustificate in qualche modo come risposta alle normative governative durante le manifestazioni ormai a cadenza settimanale, indipendentemente da favore o sfavore personale sulle manovre adoperate (a tratti comunque discutibili, mai è stato detto “tana libera tutti!”), evitate di sbandierare frasi sul “no alla violenza sulle donne”, o mettere l’immagine dei vostri profili WhatsApp con il fiocco rosso.

E vi esorto a (non) farlo in qualità di una che, prima di “chiamare” e chiedere aiuto ci ha messo tanto, con tanto tremore e timore del giudizio, per un lungo tempo.

Sentirsi depredati di parte di sé, delle proprie sicurezze, dell’affermare una posizione scomoda, l’adeguarsi per non essere sottoposta a –altre– mille domande, è qualcosa che rimane in un angolo buio, in un cassetto mentale di un colore blu smorto, livido.

E non si placa certo urlando e spaccando cose.

Alcune parti non si riaggiustano, per quanta colla, o punti di sutura ci si mettano.

In Giappone, in quegli spazi degli oggetti, si pratica una tecnica artistica molto poetica: si sistemano i pezzi con l’oro, come a rendere evidente un segno, una cicatrice che avvalora quell’oggetto riassestato. Rendendolo unico, prezioso; più prezioso, a tratti, di quanto non fosse all’inizio. Accade anche all’anima, di avere in quel cassetto nascosto una luce fioca che ridona forza, nonostante faccia paura ogni volta.

Qualcuno si chiederà, giocoforza, quale possa essere il senso di questi concetti insieme.

Rispettarsi per imparare a rispettare: un nuovo inizio

Ebbene, semplicemente, poiché qualunque sia la posizione da esprimere, non è con grida, alienazione e altra violenza che si insegna, né si ottiene il rispetto.

Pertanto, se non sapete evitare di:

  • creare il caos,
  • strumentalizzare argomenti decontestualizzandoli,
  • aumentare l’ego attraverso l‘accrescimento del senso di colpa nell’altro,
  • disistimare,
  • fagocitare acredine,
  • fare differenze economiche su valutazioni personali,
  • forzare emotivamente,
  • mettere le persone a disagio,
  • accrescerne la paura, nonché demolirle psicologicamente, 

è estremamente dubbio pensare riusciate a sviluppare un’empatia tale da sollecitare una coesione fin dall’infanzia per le generazioni a venire, dove non dire ai bambini solo come vestirsi, ma come comportarsi.
O meglio: insegnare di essere liberi di vestirsi, ma doverosi verso l’altrui equa considerazione nel comportarsi.

E camminateci, un po’ ogni giorno, se volete, in quelle scarpe rosse, per capirne appieno il loro valore simbolico. 
Passo dopo passo, uno stiletto alla volta.

Imparate quanto sia più complesso vivere in mezzo a “più” scelte, come fanno le donne, ma anche a celebrarle, immense, in ogni ordinaria cosa alla quale donano, per contro, straordinarietà. 

A ciò, aggiungo una vecchia poesia scritta ed edita nel 2015 da “LePagine”, ripensando al mio passato, confidando che davvero il blu, livido come quello conseguente una violenza fisica, diventi colore del mai più. 

Una poesia contro la violenza di genere:
“Blu”

Blu è mare,
Blu è colore lineare.
Blu è impercettibile
Blu è suscettibile
Ad ogni sfumatura v’è impresso un simbolo d’arsura
Blu è arduo da delineare.
Blu è bene sol quando è un amor che per virtute e rispetto conviene.

Blu gemello della notte,
Blu sono quegli occhi
Blu è il fragore
Blu è il terrore.

Blu è il segno infamante delle botte,
È pelle che tu infanghi dei tuoi rudi tocchi.
Blu è il livido,
Retaggio dell’esser più spregevole, sdegno dell’uomo lodevole.
Blu è l’angolo mio più oscuro,
Sol tetto dove io mi sento al sicuro,
Così timido, così pavido, coi miei due occhi spenti, ritrovo l’antico vigore,
ché questo no, non è amore.

Le urla che mi strappano il cuore,
mi dico che quel blu smunto, d’odio e terror unto, quello è il colore del mio dolore.

Blu, colore del mai più.

📌25 Novembre, ricorrenza senza anno preciso, ma solo per un miglior futuro.

Meno perbenista, più perbene.

 

Veronica Fino, quella che, finalmente, non nasconde più la faccia. 

Redazione

Scritto da Redazione

La redazione di VanityClass.

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