Un guerriero della scena, in un’intensa ricerca di sguardi sempre nuovi verso la vita, Michele Venitucci, attore feticcio di Sergio Rubini e vincitore del premio come Miglior Attore Protagonista al Festival di Locarno (2006), racconta con passione e lucidità la sua lunga e brillante avventura cinematografica, in un turbinio di tumulti interiori e scoperte illuminanti.
L’attitudine all’immaginazione credo sia una caratteristica tipica degli artisti che provengono dal Sud. Tu che condividi con me le origini pugliesi, quanto credi abbiano influito le tue radici nella tua formazione artistica?
Senza dubbio la nostra provenienza influenza la nostra natura e il nostro modo di agire in maniera organica. È come se una storia più lontana di noi ci attraversasse con una propria genetica emotiva. Chi viene dal Sud è portato a guardare l’orizzonte continuamente. C’è sempre qualcosa che ci rende interiormente inquieti. Il nostro clima ci rende fuori lenti e accoglienti, senza i ritmi scanditi dalla frenesia delle città, ma dentro c’è un tumulto che nasce dallo spirito di adattamento. Sicuramente la mia appartenenza alle radici meridionali fa la differenza come essere umano e come attore, come portatore di uno sguardo diverso. Noi siamo costretti a sognare e questo esercizio, che appendiamo sin da piccoli, ci rende disponibili al mondo onirico, all’andare oltre.
Da regista, lavorando molto su questo aspetto, mi interessa molto sapere di quei processi autonomi che un attore cinematografico vive per la ricerca della verità scenica, sarà certamente questa una domanda che accomuna le interviste con attori di Cineincanto. Secondo la tua esperienza, come avviene?
Un primo livello di elaborazione avviene nella fase della formazione, quando inizi questo mestiere, il primo impatto lavorativo. Lì non ti poni la domanda di come riproporre la verità, se appare interessante o no, se è troppo vicina a te stesso o meno. Agli esordi si è nella verità, inconsapevolmente, nonostante l’apprendimento di mezzi tecnici, vocali e corporei. L’esperienza è ancora poca e domina l’istinto. È la stessa magia che si coglie in un bambino attore o in un attore giovane, c’è una freschezza che torna sempre in termini di verità. È incredibile! Quando rivedo i miei primi film con Rubini, percepisco in qualche modo, un istinto legato a quell’età. Poi crescendo, in un secondo livello di esperienza, ho capito che quell’istinto è diventato un limite. Mi appoggiavo troppo a quella verità che diventava più vicina a me che al personaggio, anche se, spesso, mi veniva richiesto proprio questo. È uno specchio, ti rappresenta troppo e come attore si rischia di non divertirsi creativamente.
In un momento di passaggio, invece, ho capito che quell’istinto può diventare un pregio e sono riuscito a trasformarlo e usarlo per fare un’evoluzione ulteriore: una base su cui creare consapevolmente la struttura del personaggio. Avere accesso a questo doppio livello fa la differenza e rende un attore emotivamente generoso.
Il lavoro dell’attore, così come quello del regista e di altre maestranze artistiche, è spesso caratterizzato da momenti di incertezze e dubbi che si alternano a momenti di entusiasmo e determinazione. C’è stato un momento preciso in cui hai avuto la certezza che questa fosse la tua strada, che il dado fosse tratto e che avresti lottato sempre per percorrerla?
Coincide proprio con il primo giorno in cui sono arrivato a Roma e ho iniziato la mia formazione. Non è stata una formazione generica, come a volte è quella universitaria, né la mia scelta di intraprendere questa strada lo è stata. Lo stesso spostamento fisico dal Sud, drammaticamente necessario, è stato vissuto da me come un’opportunità, un movimento interiore, una sorgente di esperienza. Immediatamente dopo, l’incontro con Rubini è stato come una sorta di conferma, un riferimento che veniva proprio dalla Puglia da cui ero partito. È stata una grande motivazione per me.
Io credo molto nella capacità di un regista di saper individuare le specificità di ogni attore e quindi di usare un linguaggio unico e personalizzato per dirigere, allo stesso modo, mi piacerebbe approfondire la consapevolezza degli attori stessi circa la propria unicità. In cosa risiede la tua peculiarità come attore, la tua forza?
Secondo me è necessario per un attore trovare il proprio punto di forza e la propria caratteristica. Credo che in un percorso di formazione, un insegnante di recitazione, invece di dare delle armature tutte uguali, dovrebbe avere questa attenzione nell’ osservare le peculiarità e la storia di ognuno. È anche vero che alcuni attori come punto di forza hanno proprio l’annullamento delle proprie specificità, riuscendo ad essere tutto. Questo è spesso un dogma dei registi. Però, personalmente, ritengo che per distinguere il mestiere dalla vocazione, sia necessario imparare a individuare le proprie peculiarità. Nel mio caso, per quanto senta di non averla ancora espressa al massimo, credo che ci sia una connessione diretta con la verità e l’emozione. Quella è sicuramente la mia intelligenza artistica. Ho imparato ad aprire i canali e a saper attingere da quella emotività, anche perché era una necessità che avevo e ho come essere umano. Ho imparato ad abbandonarmi. L’abbandonarsi è tutto secondo me, una dimensione molto delicata e complessa da raggiungere. Per ottenerla non basta solo la fiducia o l’esperienza, ci vuole anche una sana dose d’incoscienza.
Qual è la fase della lavorazione cinematografica che ti entusiasma di più?
Nel cinema mi entusiasma tutto il “pacchetto”. Soprattutto in quello indipendente in cui non c’è la pressione produttiva di dover confezionare un prodotto, perché là dove ci sono delle carenze nei mezzi tecnici o economici, c’è molta libertà creativa. Dovendo rispondere in modo più preciso, mi affascina la fase delle riprese, e, nello specifico, quella degli interni notte. Lì si crea una bolla, un’intimità speciale che mi cattura. L’illuminazione e l’atmosfera favoriscono l’ascolto. Anche i tecnici presenti si trasformano in spettatori privilegiati perché spesso intercettano questa sensazione. È una lente d’ingrandimento delle emozioni. È come tornare bambini e stare soli nella propria cameretta: i sogni sono liberi, a cielo aperto.
Cosa deve nascere, secondo la tua esperienza, tra un regista e un attore per poter raccontare e creare storie e personaggi in grado di emozionare? Ci deve essere un fattore specifico vincente?
Ci deve essere. A volte non avviene. La parola chiave credo sia una sorta di innamoramento e, come tale, a volte è reciproco a volte no, altre volte proietta solo illusioni. L’innamoramento sano, invece, è quello che sviluppa la capacità di ascolto e di connessione senza eccesso di parole, quando il regista sa dove andare a toccare delle corde specifiche. Avviene casualmente come l’amore. Non a caso gli attori feticcio di certi registi sono diventati tali e si sono riconfermati in altri lavori perché all’inizio c’è stata un’intuizione che ha funzionato. È un rapporto delicato e violento allo stesso tempo. È anche una forma di possesso, ma l’innamoramento è una forma più alta e se c’è, si
trasforma in fiducia reciproca.
Alcuni attori vivono intensamente alcune storie di film in cui lavorano e sperimentano una sorta di lutto quando, finito il film, devono abbandonare il loro personaggio. Ti è capitato di sentire fortemente un personaggio che hai interpretato, a tal punto da avere difficoltà a liberarti di lui?
È accaduto quando ho fatto il film “Fuori dalle corde” in cui interpretavo un pugile. Quel personaggio, se pur lontano da me nella sua storia e con tutta la trasformazione fisica che ho dovuto fare, aveva dei punti di contatto con il mio sentire. Quel personaggio, in quel periodo, mi era particolarmente addosso. A volte capita anche con personaggi che in un primo momento sento più vicini a me, con cui ho più dimestichezza e con cui più di una volta ho avuto a che fare. Nel nostro film, Istmo, è accaduto un qualcosa di sorprendente. Il personaggio di Orlando, complesso da caratterizzare per il suo misterioso mondo interiore, mi ha quasi inquietato per la forza e la facilità con cui me lo sono ritrovato dentro. Finito il film, il mio processo con Orlando non era ancora finito. Quel mistero ha lavorato in me anche dopo e si sono aperti mondi speciali di comprensione della sua sfera interiore che mi hanno portato a desiderare di continuare ancora la sua storia e sentirne
profondamente il potenziale.
Anche questa è una domanda ricorrente, ma credo sia sempre un’occasione interessante di conoscenza per il lettore. Ad oggi, qual è il personaggio che Michele Venitucci vorrebbe interpretare?
Nel tempo tra un lavoro e un altro mi capita di pensare a questo. È un tempo prezioso con cui spesso combatto, ma è molto importante per sviluppare alcune consapevolezze. Mi piacerebbe, in questo momento, interpretare un personaggio in un contesto fantascientifico, un uomo di un’altra galassia o un reduce di una fase apocalittica sulla terra. Mi piacerebbe trovarmi a giocare con un possibile futuro dell’umanità o con una situazione estrema, in cui c’è ancora, però, l’universo interiore dell’uomo come lo conosciamo. Poi, più in generale, vorrei un ruolo che si sintonizzi con l’uomo che sono nel momento in cui lo interpreto. Sento di avere un tumulto e un vulcano dentro non ancora espresso e ancora da scoprire. Per questo vorrei fare sempre meno personaggi ispirati a come mi percepisce chi me li propone, cioè simili a dei cliché che ho già interpretato molte volte.
Ogni lavoro ci cambia perché è parte integrante della nostra vita e della nostra identità. Hai un pensiero riguardo alla misura in cui la tua vita di attore ha cambiato la tua vita di uomo?
Ho trasformato il sogno in una professione grazie alla quale vivo e durante questi viaggi fisici ed emotivi, in storie e luoghi sempre diversi, dopo difficoltà e, a volte, ingiustizie, credo di aver scoperto che, oltre alla magia del lavoro dell’attore, c’è un impatto emotivo su di me che per tanto tempo ho sottovalutato. Ad un certo punto mi sono chiesto quanto il lavoro abbia influenzato la mia vita di essere umano, le mie relazioni, le mie scelte di vita, le mie ansie, i tempi sospesi e come sarei stato con una vita diversa. Mi sono risposto dicendomi che, nonostante tutto, sento chiaramente che questo sia il mio posto, perché questo è il bagaglio e l’eredità di tutta la mia vita da attore: il tormento dell’incertezza e la bellezza dell’avventura.